Al Namrood
REVIEWS INSANE VOICES LABIRYNTH

Recensione a cura di Edoardo Goi
Quando uno pensa al black metal dai sentimenti profondamente anti-religiosi difficilmente pensa all'assolata e desertica Arabia Saudita, e invece è proprio da lì che provengono gli attivissimi folk/blacksters AL-NAMROOD (nome derivante dal quello del tiranno babilonese Nimrod, ricordato nelle sacre scritture bibliche come “Colui che dichiarò guerra a Dio stesso”), dei quali questo KITAB AL AWTHAN (Il Libro Degli Idoli, in italiano) rappresenta il secondo lavoro sulla lunga distanza, pubblicato originariamente nel 2012 e recentemente ristampato su vinile da Shaytan Procuctions. Fondati nel 2008 (da un'idea del cantante Mudamer e del tastierista Ostron, cui si unirà successivamente Mephisto alla chitarra e al basso) e con all'attivo ben sette full lenght, oltre a svariati ep e singoli, gli Al-Namrood si sono distinti fin dalle primissime mosse musicali per il loro modo di mescolare metal estremo e strumenti tradizionali dell'area mediorientale. Va detto che, dopo l'avvento sul mercato di top acts quali Orphaned Land, Melechesh e Mirath, il connubio fra metal e tradizione mediorientale risulta ormai sdoganato (e con notevole successo) da anni, ma i nostri riescono a darne una loro versione molto personale e avvincente, guadagnandosi sul campo il rispetto di tutta la comunità estrema in virtù di un approccio sinceramente grezzo, oscuro e assai poco incline al facile “esotismo” che invece ha caratterizzato altri prodotti portabandiera di questo melting-pot stilistico (soprattutto in ambito heavy-power, ma non solo). Questo Kitab Al Awthan risulta tutt'ora uno degli episodi più apprezzati della discografia, quindi vale assolutamente la pena di cogliere la palla al balzo per spendere due parole su un album che potrebbe essere sfuggito ai radar di qualche appassionato, nove anni or sono. Splendidamente presentato da una copertina assolutamente splendida, capace di sprofondare immediatamente l'ascoltatore nelle atmosfere al contempo esotiche, antiche e oscure di cui è pregna la musica dei nostri, l'album si apre sulle note della breve quanto evocativa intro MIRATH AL SHAR (l'Eredità Del Male), le cui orchestrazioni, accompagnate da cupi rimbombi percussivi, spianano in modo perfetto la strada all'esplosione del primo brano vero e proprio del disco, intitolato MIN TRAB AL JAHEL (Dalla Polvere Dell'ignoranza). Si tratta di un brano capace di mettere subito in luce le caratteristiche di cui si compone la proposta degli Al Namrood: da una parte, un metal estremo devoto ai primi vagiti delle scene black e death, con rimandi evidenti a band quali Hellhammer, primi Celtic Frost, Bathory, i Mayhem pre- De Mysteriis e i Darkthrone meno furibondi, e dall'altra un uso massiccio e onnipresente di tastiere e strumenti folcloristici dell'area mediorientale (non ultime, un gran numero di percussioni) che riescono nell'intento di non mettere mai in discussione l'aura cupa, malvagia e arcaica della loro musica. Marchiata a fuoco dal growl abrasivo di Mudamer (e dagli splendidi sentori evocati dall'uso della lingua autoctona per le liriche), la musica dei nostri si dimostra subito molto più attenta a risultare descrittiva e avvolgente piuttosto che ligia ai classici dettami della forma canzone, e qui in particolare si concretizza in un mid tempo di rado screziato da momenti più incalzanti (benché mai a livelli che vadano oltre a un blast beat abbastanza contenuto), reso intrigante da un modo tipicamente mediorientale di concepire le ritmiche (ricordando in questo i Melechesh) e che lascia spesso spazio a lunghe porzioni strumentali in cui sono gli strumenti folk a prendersi l'intero proscenio, per un risultato finale decisamente intrigante, anche se certamente bisognoso di una notevole attenzione per essere goduto appieno, data la sua natura di certo non immediata. La successiva HAYAT EL KHLOOD (La Vita Indistruttibile) si manifesta invece fin da subito come una traccia più rocciosa e concreta, costruita attorno a un riffing essenziale, pesante e circolare su cui si innestano di volta in volta gli imprescindibili elementi etnici, a volte in modo più discreto, altre volte in modo più sostanzioso, ma senza che mai la pesantezza di fondo della composizione ne risulti minimamente intaccata.
Un brano implacabile e asfissiante, capace di evocare gli spettri nascosti nei riflessi del mortifero sole del deserto in modo assolutamente spettacolare. La tendenza dei nostri ad affidarsi spesso e volentieri a poderosi mid-tempo come base ritmica su cui costruire le proprie composizioni, irrobustendo solo di rado il tutto con calibrate e mai eccessivamente parossistiche accelerazioni, è confermata anche dalla successiva ASHAB AL AIKA (Quelli Del Legno), brano che si muove più o meno sulle stesse coordinate del precedente, ma che vede i nostri irrobustire il tutto con abbondanti dosi di percussioni che donano al risultato finale un flavour tribale di grande intensità, mentre nella successiva AL QAUM, HAKEM AL HUROOB (Al Qaum, Sovrano Delle Guerre) i nostri decidono di spingere decisamente sull'acceleratore, confezionando un brano caratterizzato da un blast beat incessante chiamato a sorreggere un'impalcatura black/death di grande impatto, resa ancora più debordante da orchestrazioni dai connotati epici in grado di sottolineare in modo perfetto l'atmosfera belligerante del pezzo. Una gran bella mazzata, decisamente funzionale allo sviluppo dinamico di un album che poteva tendere alla ripetitività dal punto di vista dei tempi metronomici adottati, se non fosse stato per questo deciso scossone tellurico. Quasi a voler ribadire il loro trovarsi a proprio agio anche quando i bpm salgono, ecco giungere i vivaci tempi black&roll della trascinante KIRAM AL MATAIA (La Maestosa Grandezza), screziata da intense partiture etno-folk dai connotati quasi danzerecci che sembrano mettere per un attimo da parte le atmosfere cupe che avevano contraddistinto finora le trame dell'album per soffermarsi nella contemplazione della bellezza delle meraviglie esotiche evocate dal brano. Si tratta però solo di un momento, perché ci pensa subito la tetra EZ AL MULOOK (La Grandezza Dei Re), con le sue orchestrazioni epiche a sottolineare un mid tempo scandito da riff totalmente asserviti all'opprimente atmosfera generata, a ripiombarci immediatamente nei cupi misteri del medio oriente, il tutto irrobustito da ferali scudisciate in blast beat e da aperture dal sapore folk come sempre estremamente evocative e caratterizzanti. Sono di nuovo sentori quasi black&roll quelli che ci accolgono sulla soglia della tanto conturbante quanto capace di insopprimibile ferocia BANI LA'EM (La Tribù Di La'Em), brano marchiato a fuoco da ritmiche dai nettissimi connotati etnici chiamate a sostenere grevi chitarre portatrici di riff via via sempre più oscuri, screziati da lancinanti inserti folcloristici a metà fra l'esotico e l'orrorifico, per uno dei brani senza dubbio più particolari dell'intero lavoro; lavoro che si conclude sulle tetre note dell'ammaliante quanto penetrante outro WA MA KAN LIL SUFHA' ENTISAR (E Non Ci Fu Vittoria Per Gli Stolti), dove strumenti antichi e strumenti moderni sono chiamati per l'ultima volta a duellare magistralmente fra le sabbie testimoni di antiche meraviglie e segreti, prima che il sipario cali su questo album straordinariamente affascinante, che ora come ai tempi della sua uscita saprà mettere d'accordo tanto gli amanti delle sonorità primigenie della scena estrema quanto gli estimatori degli ancestrali sentori esotici di cui è pregno. Una vera gemma che merita assolutamente di essere riscoperta da chi ancora non l'avesse incontrata sul suo percorso. Totalmente imperdibile.
90/100