Wreck Defy
Recensioni a cura di Edoardo Goi - Daniele Blandino
REVIEWS INSANE VOICES LABIRYNTH
Recensioni a cura di Edoardo Goi
Il nome WRECK-DEFY potrà non suonare familiare a chi ha poca familiarità con la scena thrash underground, ma basta dare una rapida occhiata ai nomi coinvolti nella registrazione di questo nuovo (e terzo) album della band, intitolato POWERS THAT BE, per capire che, di certo, non ci troviamo di fronte a una band di esordiente... Il mastermind del progetto, il chitarrista Matt Hanchuck, dopo essere riuscito a coinvolgere, nei precedenti album (Fragments Of Anger del 2017 e Remnants Of Pain del 2019) musicisti del calibro di Shawn Drover (Megadeth, Eidolon e Act Of Defiance) e Justin Stear (Alphakill), stavolta ha voluto esagerare, incorporando nella line-up nientemeno che Aaron Randall (già voce nei conterranei Annihilator ai tempi del fortunato Set The World On Fire), Greg Christian (già bassista della line up storica dei Testament) e Alex Marquez (già batterista di Demolition Hammer e Malevolent Creation), per dare vita a un album di rocciosissimo e furente thrash metal screziato da incisive influenze di metal classico. Registrato presso i Trident Studios californiani, prodotto e mixato da Juan Urteaga (già visto all'opera con acts quali Exodus, Heaten e Hatriot) e distribuito da Punishment 18 Records, l'album riconferma quindi le coordinate sonore da sempre alla base dell'operato della band, avvalendosi anche dell'apporto di alcuni guest di spessore quali Geoff Thorpe e Gunnar DuGrey Richardson (chitarristi degli storici Vicious Rumors), Kosta Varvatakis (Hatriot) e Doug Pearcy (ex-Heaten), chiamati a duellare con il mastermind Matt in infuocati assoli lungo l'intero full. Le intenzioni della band si palesano fin dall'attacco dell'opener BEYOND H8, dichiarazione di intenti che non ammette fraintendimenti di sorta riguardo agli obbiettivi dell'album: colpire duro, colpire a fondo, non fare prigionieri. Ci troviamo di fronte a un assalto thrash al fulmicotone, debitore dei classici del genere (impossibile non citare Exodus, Heaten e Annihilator), capace di aperture melodiche di ottimo livello e mai eccessive e guidato dalla voce al vetriolo di Aaron. La prestazione dei musicisti è di assoluto rilievo, con una sezione ritmica che viaggia come un treno e con Matt impegnato a sparare a raffica riff su riff di pregevole fattura. Una badilata in faccia senza dubbio notevole che, se da un lato non presenta alcuno spunto di innovazione o originalità riguardo al genere di riferimento, risulta senza dubbio efficace a livello epidermico, donando più di un brivido di piacere agli appassionati del genere medesimo (fra cui il vostro umile scribacchino). L'intensità non arretra di un millimetro nemmeno nella traccia successiva, la title track POWER THAT BE. Si tratta di un brano articolato e dalla durata piuttosto consistente (si superano di poco i sette minuti), in cui la band mette in mostra evidenti influenze Testament, ma anche il notevole peso specifico che il metal più cromato e tagliente (Judas Priest e tutta la tradizione dello US power metal, in primis) ha sul proprio operato. Un peso specifico che accompagna, in effetti, l'intero platter, ma che risalta come non mai proprio nei brani più complessi e strutturati dove, come in questo caso, la band alterna abbondanti dosi di rocciosi e quadratissimi mid e up tempos, mettendo in mostra una ricerca melodica (tanto nel comparto strumentale quanto nel comparto vocale) mai ridondante e una capacità di scrittura e arrangiamento di assoluto livello, riuscendo sempre a conferire ai propri pezzi il giusto tiro e la giusta consistenza. Si picchia ancora durissimo con la successiva SKIN, brano feroce ma con un'indole catchy e cupamente epica che avvicina i nostri alle sonorità care ai conterranei Iced Earth, mentre l'ariosità delle linee vocali ricorda i Riot più “power”. Notevoli le parti soliste, qui ad opera di Matt, che non sfigura affatto al cospetto dei soli registrati dai vari ospiti lungo il resto dell'album. Non stupisce che il brano sia stato scelto come singolo apripista del full, proprio in virtù del suo scorrere frizzante e brioso, pur senza rinunciare all'impatto tipico della band. La batteria è un maglio, e la chitarra rivaleggia da par suo, nell'attacco della successiva DROWNING IN DARKNESS, brano in cui la band, più che sull'impatto frontale, decide di puntare su ritmiche quadrate e un costrutto melodico piuttosto oscuro che la avvicina un po' agli episodi più pesanti degli Annihilator distopici di Set The World On Fire. Riuscitissimo l'arioso ritornello ad opera di un ispiratissimo Aaron, autore di una prova magistrale lungo l'intero album sia quando si tratta di avvolgere l'ascoltatore in melodie oscure e inquietanti sia quando, come accade nella seconda parte del brano, la band decide di spingere sull'acceleratore, permettendo al cantante di riversare nei padiglioni auricolari dell'ascoltatore tutto il veleno della sua voce, aiutato da linee vocali assolutamente impeccabili (elemento spesso trascurato da molte band, ma che qui splende di luce propria in ogni singola traccia). Non riesco davvero a immaginare cantante più adatto a rendere al meglio la proposta dei Wreck-Defy, sinceramente. Davvero un notevole valore aggiunto. Thrash metal groovoso e moderno (un po' ultimi Testament) è ciò che ci aspetta nella successiva SPACE URCHIN, brano quadratissimo dall'altissimo gradiente metallico che fa della sua immediatezza e della sua struttura decisamente lineare i suoi punti di forza (a tratti, emergono alcuni punti di contatto con gli ultimissimi Accept, il che non è mai un male, per chi scrive). Lo spettro dei Judas Priest più cupi (ma anche dei Vicious Rumors) aleggia sulla parte introduttiva dell'ancora una volta quadratissima (sebbene più variegata nella gestione delle dinamiche) SCUMLORD, brano che alterna sinistri arpeggi semodistorti e roocciosissime aperture in mid tempo in cui la voce fa il bello e il cattivo tempo, prima che il brano subisca un'impennata dal punto di vista della velocità all'altezza degli assoli (in cui giganteggia il mostro sacro Geoff Thorpe ad alternarsi al sempre ispiratissimo Matt), salvo poi tornare ai fraseggi iniziali, sul finale del pezzo.
Convincente e atmosfericamente denso, il brano ci permette di apprezzare, giunti a questo punto dell'album, la capacità della band di dare ad ogni singolo pezzo una sua impronta peculiare e decisa, pur senza mai rinunciare all'ammantare il tutto con la propria personalità che, al netto della derivatività della proposta, si staglia in tutta la sua evidenza. Si torna a picchiare durissimo nella successiva FREEDOMLESS SPEECH, ideale ponte fra thrash moderno e thrash old school (un po' come tentato dagli Exodus di “Shovel Headed” e dei due “Exibith”) che alterna sfuriate furibonde, caratterizzate da un riffing affilatissimo e decisamente curato, e rallentamenti potentissimi che esaltano le doti da mattatore del sublime interprete Aaron Randall, che sguazza in queste sonorità come uno squalo (rigorosamente affamato) nel mare. La sua voce, sempre molto aggressiva ma anche capace di vette notevoli , dona al tutto un senso “Priestiano”, ma i Priest di un album controverso come Jugulator che, avesse avuto un tiro più simile a quello di questo album, avrebbe fatto storcere assai meno il naso ai fan storici della band britannica. I Wreck-Defy si dimostrano, infatti, ancora una volta maestri nel far convivere vecchia e nuova scuola senza che nulla suoni fuori posto o posticcio, e lo confermano una volta di più nella successiva GOODBYE TO MISERY, con la sua intro cromatissima, richiamante ancora il Prete di Giuda, prima che la band si getti a capofitto in un thrash potente e torrenziale (molto vicino ai Testament di album come “The Formation...” o “Dark Roots”), salvo poi tornare ai fraseggi precedenti, per una prima parte di brano che gioca proprio sull'alternanza, piuttosto riuscita, fra questi due aspetti. Come spesso accade, la seconda parte vede la band pigiare maggiormente sul pedale del acceleratrore, non dimenticando di arricchire il tutto con ottimi refrain, melodie evocative e accattivanti e ottimi soli.
Una gustosa mazzata. Non si arretra di un millimetro nemmeno con la thrashossisima I AM THE WOLF, altro brano che sfiora i sette minuti di durata, in cui la band riversa un profluvio di riff thrash al fulmicotone, arricchendo il tutto con alcuni arrangiamenti ritmici estremamente dinamici e interessanti e con la consueta maestria nella gestione delle linee vocali. Menzione d'onore per la parte centrale, che azzanna l'ascoltatore alla gola per non mollarlo più grazie al al lavoro incendiario di Matt alla chitarra e alla compattezza davvero invidiabile di tutti i membri della band. Un monumento al thrash fatto e finito, e assolutamente riuscitissimo. Si tratta dell'ultimo brano vero e proprio dell'album, che si chiude ufficialmente con la breve, accorata, traccia acustica ON THE OTHER SIDE, ma ciò che resterà nelle orecchie dell'ascoltatore non saranno certo queste avvolgenti note, quanto il devastante impatto elettrico di una band votata alla glorificazione del thrash più potente e adrenalico, perpetrata con chiurgica e conclamata capacità. Derivativo quanto volete, ma qui c'è una band capace di scrivere davvero dei grandissimi pezzi, e di interpretarli con una convinzione palpabile quanto travolgente. Per quanto mi riguarda, promossi su tutta la linea. Bang that head that doesn't bang, and thrash 'till death.
85/100

Recensione a cura di
Daniele Blandino
Line-Up:
Aaron Randall - Voce
Greg Christian -Basso
Matt Hanchuck - chitarra
Alex Marquez - batteria
I "Wreck-Defy" si sono formati nel 2016 grazie a Matt Hanchuck che aveva composto molti brani nell’arco degli anni, suonando in varie garage bands, enormemente influenzato dal fiorente thrash metal della Bay Area degli anni '80. Matt contattò il suo buon amico Justin Steer (ex Winnipeg) da una delle band in cui aveva militato lo stesso Matt. L'album di debutto "Fragments of Anger" è stato rilasciato con una produzione prima indipendente e successivamente dalla label Alone Records, con base in Grecia. Durante la registrazione, Matt è stato in grado di ingaggiare Glen Drover dei Megadeth per mixare l'album; questo ha portato Shawn Drover, fratello di Glen, a suonare tutte le tracce di batteria dell'album di debutto.
Una volta iniziato l'album successivo, Justin lasciò il progetto, lasciando Matt nel continuare il lavoro, decidendo di chiedere all'ex frontman degli Annihilator, Aaron Randall, di cantare per la band. Dopo aver ascoltato l’album di debutto, Aaron accettò di unirsi alla band e così iniziarono le successive sessioni di scrittura. I Wreck-Defy hanno scelto di migliorare la qualità della produzione assumendo Juan Urteaga, già produttore di Testament, Machine Head, Heathen Vicious, per il mixaggio del nuovo album. Durante questo periodo, Matt ha visto l'appoggio di Greg Christian dei Testament nell’unirsi ai Wreck-Defy e suonare tutte le linee di basso nel nuovo lavoro. Ora non ci resta che aspettare la possibilità di poter ascoltare la band in Europa.
Album thrash metal di stampo old school, con questo lavoro sembra di essere catapultati degli anni 80, le influenze di quegli anni si sentono tutte nell’intero album.
Il disco è composto da 9 tracce per una durata di 44 minuti e 53 secondi, anche l'artwork è ben curato e riprende un pochino le copertine del passato. Le tematiche che il gruppo affronta sono rabbia, frustrazione, ingiustizia sociale e guerra.
L’album si apre con “Killing the Children”: buon opening dell’album amalgamato con influenze moderne senza snaturare del tutto il genere, il ritmo cavalcante rende il brano scorrevole e i cambi di tempo lo rendono molto appetibile, soprattutto la parte del ritornello ben studiata. L’ascoltatore viene immerso nel loro sound si vintage ma anche moderno allo stesso tempo. Si continua con “Broken Peace”: canzone coinvolgente, immergendosi del tutto nel brano, la violenza del sound è quasi scomparsa lasciando il posto a una melodia orecchiabile, forse in alcuni momenti troppo sdolcinata, rendendo il sound morbido e forse nell’ascolto complessivo un po' stucchevole.
La terza traccia “Riverview” è una canzone piuttosto melensa , come se la band si sia concentrata nel rendere il sound più appetibile a tutti, in ambito commerciale. La purezza del genere non c’è più lascia soltanto spazio a stereotipi di genere e anche la violenza dell' impatto sonoro, che in un gruppo thrash dovrebbe essere presente, è scomparsa. La quarta traccia “Looking Back”, è canzone acustica all’inizio quasi a sembrare una simil ballad con alcuni spunti carini, ma nulla di più, la piega commerciale e melodica prende il sopravvento.
La quinta traccia, “18oz of Chrome”, canzone leggermente più presente sul genere rispetto alle altre, presenta ancora questa deriva costante.
La sesta traccia “The Divide” sembra non voler cambiare il percorso intrapreso. La settima traccia “Art of Addiction” è invece un brano, a mio giudizio, migliore dei precedenti, con una vena thrash ben fatta dove si percepisce l'amore e le influenze degli anni ‘80.
La penultima traccia “Angels and Demons”: un'altra ballad sdolcinata, ua sfuriata con un ritmo un pochino più veloce non amalgama bene l’intero brano, sembra quasi come se il gruppo non abbia avuto idea su quale soundwriting scegliere e li abbiano mischiati per accontentare due gusti differenti.
L’album si chiude con “Blackened Cloth”, un’ intro parlata che lascia poco dopo alla musica, un’ottima canzone di thrash violento con ottimi riffs. Purtroppo un solo brano non rende giustizia all’intero album, costituito da melodie molto standardizzate, questa canzone è da salvare sotto tutti gli aspetti. Evidentemente, quando la band ha scritto il brano, sembrava molto ispirata e con le idee chiare su che strada dovesse prendere l’intero album. Purtroppo non e andata così ed è solo questa canzone, per quanto mi riguarda, ad essere veramente ottima.
Bisogna comunque dire che la band ha cercato di trovare un sistema di innovare, con idee anche molto differenti dallo stile di appartenenza, un genere quasi chiuso su in sé stesso.
40/100
